La città di Pane

La città di cui parlerò si chiama Pane. Un nome che suona come un suggerimento, un avvertimento, terra e farina, dice questo nome, fame e lavoro, sacro e profano. Una città che vuole dare un’idea di sé prima che i forestieri ci entrino, vuole svelarsi un po’, lasciarsi indovinare, muovere la mente, Chi ha pane non ha denti, dice chi trova ingiusta la vita, Pane al pane, chiede chi vuole le cose come stanno, Chi vuole il pane deve portar letame, insegna il padre di famiglia, Sprecarlo è peccato, aggiunge la donna misericordiosa.

Se entri nella città, vedrai come indossa bene il suo nome, come il progresso l’abbia cambiata senza cambiarla, con quel suo pensare alla vita che era in un modo e così è rimasto.
La prima cosa che noti entrando in città sono i muri che non sono muri, ma tele ricoperte di disegni, fogli bianchi pieni di pensieri e poesie, un continuo raccontare e testimoniare, un eterno invito a immaginare.

Tanti anni fa i giovani di Pane presero l’abitudine di sporcare i muri con scarabocchi, soprannomi dall’ego imbarazzante, parolacce che offendono tutti e nessuno, e se un giorno i muri venivano ripuliti, il giorno appresso i muri tornavano quel caos di segni senza senso.

Il Consiglio Popolare e le Scuole di Pane decisero allora di eliminare il fascino del proibito e sostituirlo con lo spirito competitivo: da quel momento in poi, tutti gli abitanti sono autorizzati a usare i muri per esprimersi, mettere la firma è l’unico vincolo, che si prendano i meriti quanto le responsabilità.

A rendere appetibile l’esperimento ci sono promesse sempre mantenute: alla fine di ogni anno alcuni esperti d’arte alla ricerca di nuovi talenti esplorano i muri di Pane e lanciano qualche giovane artista promettente, all’inizio di ogni anno i muri vengono puliti per dare spazio a nuove creazioni, eccetto le opere che entrano tanto nell’immaginario collettivo della città che ne diventano i simboli, quelle restano, diventano patrimonio.

Durante i primi anni, alcuni giovani, forse arrabbiati col mondo, forse con se stessi, continuarono a contaminare i muri di nascosto. Nessuno però si copre gli occhi se gli affari sono i suoi e i giovani di Pane scovavano sempre i sabotatori, li portavano nelle piazze affollate e gridavano la loro colpa davanti a tutti, perché non c’è cosa peggiore che provocare nell’uomo il sentimento da cui fugge da sempre, la pubblica vergogna.

La seconda cosa che noti nella città di Pane è la quantità di alberi presenti nei numerosi parchi e nei giardini privati. È qualcosa che ha a che fare più con gli esseri umani che con la natura, è il modo in cui la città celebra i morti. Per gli abitanti di Pane, la vita va presa per quello che è, la gente muore, il dolore fa parte dell’esistenza, se abbiamo voluto bene a qualcuno, dicono loro, festeggiamo la sua vita, riuniamoci tutti in un posto, raccontiamo qualche aneddoto e ridiamoci su, mangiamo i piatti che mangiava, ascoltiamo la musica che ascoltava, appendiamo a un filo le sue foto e ripercorriamo la sua vita insieme, e poi piantiamo un albero che porti il suo nome, perché dalla morte possa rinascere la vita, questo professano da decenni, questo è il modo in cui amano chi se ne va.

Ma i parchi non sono infiniti e presto si diffonde in città l’uso di piantare gli alberi nei propri giardini, Quella è mia madre, dice qualcuno indicando l’albero di casa sua, Quello è mio padre, Quella è mia sorella.

Se chi muore è solo, qualsiasi cittadino può diventare un padrino e prendersi l’incarico di piantare l’albero della vita nel proprio giardino e curarlo personalmente, mai c’è stato morto che non avesse un albero, perché chi è padrino dell’albero della vita di un morto ne eredita anche la storia sua e della sua famiglia, Quello si chiamava Paolo ed era carpentiere, dirà allora qualcuno indicando l’albero di casa sua, I suoi genitori facevano il pane.
Se gli abitanti di Pane si aiutano gli uni con gli altri è per proteggere ciò che per loro conta di più: la dignità. Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te, dice il comandamento, Fai agli altri ciò che vorresti sia fatto a te, deducono loro, così se nella città di Pane non vedi senza tetto o mendicanti, se non incontri persone ubriache abbandonate a se stesse è perché i cittadini intervengono prima, proteggono i miserabili, gli restituiscono la dignità perduta, Domani inizi un nuovo lavoro, dicono al disoccupato, Quella casa è libera, dicono al senza tetto, Ti aiuteremo a smettere di bere, dicono all’ubriaco. Perché la vita è imprevedibile, non c’è nascondiglio dove la sventura non possa trovarti, un momento di debolezza, un errore di valutazione, ma si può fare in modo che non si cada troppo in basso, che non si sprofondi nella vergogna, se gli altri ci aiutano in tempo, Chi semina raccoglie, se gli uomini continuano a dirlo un motivo ci sarà.

Non a caso a Pane non esiste il PIL, ma il FIL, che sta per Felicità Interna Lorda. Senza dignità non c’è felicità, per questo è tanto importante garantirla a tutti, perché tutti, nei limiti concessi dalla natura umana, possano essere felici. E gli abitanti di Pane, che si affidano più all’esperienza che all’idealismo, sanno che per essere felici non si deve essere perfetti, ma si deve poter fare quello che si vuole, si deve lavorare per vivere e non il contrario e che il lavoro sia più possibile vicino al piacere o comunque a se stessi.

Così, in tutte le piazze della città c’è un mercato, sono tanti quelli che coltivano frutta e verdura nel proprio orto, sono tanti quelli che hanno un po’ di bestiame, ciò che avanza si vende nei mercati, ogni mercato copre un quartiere, la gente esce da casa e ci va a piedi, venditori e acquirenti si conoscono dalla notte dei tempi, padri che vendono ai padri, figli che comprano dai figli, ci si vede tutti i giorni, vendere e comprare sono occasioni per parlare, chi vende ci pensa due volte prima di fregare chi conosce bene, perché chi viene fregato non ci pensa due volte prima di lamentarsi, il quartiere è piccolo, la gente mormora, il banco chiude.
La città viene amministrata da un Consiglio Popolare, dalla Classe Politica e dai Grandi Saggi. Fanno parte del Consiglio Popolare cittadini comuni, che rappresentano tutti i cittadini, sono la loro voce, il loro megafono, il ponte diretto con la Classe Politica. Sono eletti ogni due anni, ma quello del Consiglio è un lavoro in più, chi faceva il falegname continua a tagliar legna, chi faceva il cuoco continua a cucinare, per capire cosa serve al popolo bisogna esser dentro al popolo, così che ascoltare il popolo significhi ancora una volta ascoltare se stessi.

Il Consiglio presenta ogni mese alla Classe Politica problemi, esigenze e questioni di ogni natura, non perché essa approvi, se qualcosa è voluto da tutti dovrà esser fatto per forza, legge non scritta non si discute, se si rivolgono ai politici è per stabilire tempi, priorità, modi opportuni in base alla cassa dello stato.

La Classe Politica, d’altronde, non ha molta scelta, il Consiglio la controlla, fa sentire il suo fiato sul colletto inamidato, e se è vero che i cittadini del Consiglio non possono prendere decisioni politiche, possono però far dimettere i politici.

Politici, questi, non tanto diversi da quelli delle altre città, i demoni scelgono l’uomo, non la sua provenienza, ma corruzione e desiderio di potenza sono arginati dai poteri del Consiglio che sorveglia, sospetta, condanna. Se un politico sbaglia, che si dimetta, pensa il popolo, oggi c’è il tarlo, domani si vota, chi prende tempo si ritrova i mobili ridotti in polvere.

I Grandi Saggi sono i giudici della città, scelti con cura tra gli anziani di Pane, umani prima di tutto, mai subumani, mai sovrumani, profondi conoscitori della vita e dell’animo, maestri della relatività, privi di dogmi. I saggi si muovono tra il bene e il male, tra la legge, che ha il difetto di essere la regola, materia che si calcifica, e il buon senso, la storia dietro ogni caso e dietro ogni uomo, che ha il problema di essere l’eccezione che raramente conferma la regola. Perché se non si può fare il processo alle intenzioni, non si può nemmeno ignorarle queste intenzioni, i reati sono tutti diversi pure se sono gli stessi, chi ruba per fame e chi ruba per gola non condividono la stessa pena e nemmeno la stessa cella, altrimenti la fame diventa gola o peggio disperazione.

Se i Saggi si permettono di emettere condanne e assoluzioni seguendo un percorso che può apparire soggettivo agli occhi di chi non ha tempo di vedere, è anche perché le punizioni, qualora siano emesse, sono molto severe e non conoscono sconti e buona condotta.

A tutti i delitti sulla persona, sia morali che fisici, corrispondono dure condanne, secondo i Grandi Saggi non c’è da aver pietà per la violenza su donne e bambini, e in generale sulla violenza ingiustificata. Se si è capaci di violentare un bambino, se si è capaci di uccidere una donna anziana per rubarle in casa, dicono i Saggi, allora si è capaci di tutto, allora non c’è altro da dire, allora quelle persone non usciranno dopo pochi anni, ma dopo dieci, venti, quaranta.

Nelle carceri, i detenuti non se la passano né troppo bene, che non si pensi sia conveniente commettere un reato, né troppo male, che non si pensi che dal maltrattamento perpetuo si cavi qualcosa di buono. La punizione che i Grandi Saggi ritengono giusta sono i lavoro forzati, otto ore al giorno, qualche volta un paio d’ore in più, straordinari li chiameremmo fuori dalla cella, lavori, questi, che producono beni per la città, lavori che fanno lavorare meno i cittadini retti, che al lavorare preferiscono vivere e proprio per questo considerano una pena severa il dover lavorare tutti i giorni senza ricevere una moneta in cambio, lavorare gratis per decenni, lavorare per far vivere meglio gli altri, che tutto questo serva da lezione.

Scontata la pena, il cittadino viene perdonato e reinserito nella società, dovrà però riguadagnarsi la cosa più difficile, la fiducia degli altri cittadini, è questa la lezione più dura, fare in modo che chi non lo saluta più lo saluterà di nuovo, chi non gli vende il pane gli venderà anche la focaccia, chi gli farà lo sgambetto lo aiuterà a rialzarsi il giorno che cadrà. Ma se il male vive in lui, i cittadini lo sanno, il male uscirà ancora da lui, per questo se ricommette un reato avrà quel che si merita, l’ergastolo, una seconda possibilità si concede a tutti, ma una terza a nessuno, errare è umano, perseverare è diabolico.

Su questioni che in molti Stati coinvolgono la morale, i cittadini di Pane si rifanno al “Trattato sulla natura umana”, scritto molti anni fa dai Grandi Saggi, dove si affrontano temi come la prostituzione, l’omosessualità, l’eutanasia. Il Trattato è nato dal bisogno di comprendere quali comportamenti e istinti vivono da sempre negli esseri umani e dividere quelli dannosi da quelli non dannosi. Se qualcosa esiste e resiste da sempre senza far male a nessuno perché continuare a combatterla? Questa è la domanda che si sono posti i Saggi. Tolto il danno, segue la seconda domanda dei Saggi, anch’essa retorica, Considerato che qualcosa non danneggia il prossimo, chi siamo noi per giudicare cosa è moralmente giusto o sbagliato?

Secondo i Saggi, ma anche secondo tutti i cittadini, che vogliono vivere tutti per quello che sono, non esistono questioni morali, esistono solo questioni di sicurezza, tutela, dignità e felicità degli abitanti. Prendiamo per esempio la prostituzione. Il danno, hanno stabilito i Saggi, non è nell’atto ma nella censura dell’atto. La prostituzione illegale dilaga nelle strade, le donne sono sfruttate, costrette, intrappolate, da papponi che prendono soldi in nero, certi poliziotti offrono il loro silenzio in cambio di sesso nel migliore dei casi, in cambio di altro denaro sporco nei peggiori, l’uomo sposato vuole far sesso senza protezione perché gode di più, così si giustifica, la prostituta accetta per guadagnare di più, l’uomo torna a casa dalla moglie, dalla malattia al contagio il passo è breve.

Per questo nella città di Pane la prostituzione è legale, considerata un lavoro come un altro, al sicuro sono le donne, estromessi i papponi, circoscritte le malattie, pagate le tasse.

Nella città di Pane ai giovani non manca la libertà. È come se gli adulti di fronte a ogni questione si ponessero la domanda “Cosa avrei voluto per me?”, allora non impongono, non costringono, non vietano ciò che loro da giovani hanno voluto fare, hanno fatto, rifarebbero. Nell’educazione che danno ai figli non c’è indottrinamento, né religioso né politico, che scelgano la loro strada quando saranno grandi abbastanza, che vedano, scoprano, provino tutto per dare forma alla loro identità, che mai dev’essere decisa una volta per tutte, ma sempre elastica, malleabile, liquida, loro che hanno vissuto una vita intera sanno bene che tutto cambia e che da grandi si diventa quello che da giovani non si sarebbe detto mai.

Il sesso non è un tabù e nemmeno un’ossessione, è una storia vecchia come il mondo, le madri parlano alle figlie della natura del corpo e degli uomini, quello che capita ogni mese, quello che capita per alcuni secondi, quello che potrebbe capitare per nove mesi, che le sorprese siano sempre volute e gradite. Non c’è un’età per fare sesso, non c’è stata per loro e non ci dev’essere per i loro figli, non avrebbero mai voluto che i genitori gli impedissero di fare sesso e loro non lo impediranno ai loro figli. Fate sesso solo se vi va davvero, mai per insicurezza, per sottomissione, per dimostrare qualcosa, per essere come tutti gli altri, per fare il passo più lungo della gamba e cadere in un pozzo dove il buio è pesto, questo è l’unico consiglio, questo avrebbero voluto sentire dalle loro madri e dai loro padri, questo è ciò che diranno.

Gli adulti creano possibilità per i giovani, questo accade per l’educazione, questo accade anche per la cultura. Nella città di Pane c’è una divisione invisibile fra cultura e università: la cultura è per tutti, questo vale per il professore come per il fruttivendolo, non è l’università a fare cultura, ma la città, la società, l’organizzazione politica, all’università si approfondisce una materia, si apprende una tecnica, si impara un mestiere.

Nella città di Pane sono promossi corsi di ogni strumento musicale e di ogni tecnica artistica, le piazze ospitano concerti di ogni tipo, le mostre sono a ogni angolo, lo sport esce dalle palestre e contamina le strade, i dilettanti hanno lo stesso peso dei professionisti, perché più importante della perfezione è l’esperimento, i giovani devono provare, devono sfogarsi, scaricare tutta l’energia che hanno in corpo e nella mente, se non potranno farlo con uno skate, un pennello, una batteria, lo faranno in modi che gli adulti non possono prevedere e forse, i tempi corrono, neanche immaginare.

La città di Pane è anche piena di librerie, il costo dei libri è variabile, il prezzo è a misura di reddito, che i ricchi paghino i libri come nelle altre città, che il ceto medio lo paghi la metà, che il povero possa averlo gratis. Nei libri ci sono le storie di tutto il mondo, pensano i cittadini, e più i giovani ne leggeranno, più capiranno la varietà umana, più non penseranno di avere qualche verità da imporre agli altri quando diventeranno adulti.

Eppure le fondamenta della gioventù di Pane, fondamenta che non si abbandonano con l’età adulta, ma su cui l’età adulta possa edificare, sono il gioco. Non un gioco qualsiasi, ma l’atto di giocare. A Pane giocano i bambini, giocano gli adolescenti, giocano gli adulti e giocano gli anziani. La voglia di giocare è salute, la possibilità di giocare è libertà, l’atto di giocare è relazione, crescita, immaginazione che prende vita. Non a caso nella piazza principale della città, Piazza del Gioco, c’è la statua di un vecchio, un uomo, un adolescente e un bambino che giocano insieme, come se fossero lo stesso uomo nelle diverse fasi della vita, e sotto la statua ci sono dei versi di un antico poeta di Pane:

Nel tuo corpo di uomo che sta per invecchiare
C’è un bimbo che attende nel suo nascondiglio
Non lasciarlo troppo tempo lì a contare
Quel bambino sei tu, tuo padre e tuo figlio

Se chiedi in giro la storia di quella statua, alcuni diranno che chi ha insistito per erigerla era un giocattolaio e che se l’ha fatto era per un suo tornaconto personale, per vendere più giocattoli, altri non smentiranno questa storia, ma sorrideranno, diranno che non importa, che la vita di un uomo dura un soffio, mentre la statua, il suo invito a giocare, dura in eterno.

Vivendo per qualche tempo a Pane ci si accorge proprio di questo: se tutto il mondo è paese e i problemi son gli stessi dovunque perché la natura dell’uomo cambia nel particolare ma non nell’universale, ciò che fa la differenza può essere solo il modo in cui questo paese, questi problemi, questa natura si intendono, si affrontano, si accomodano nella vita di tutti i giorni.

street poetry #81

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4 commenti su “La città di Pane

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